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“Ritorno al velo” o “femminismo”?
La
sociologa Leila Ahmed, in seguito ad uno studio
svolto in Egitto negli anni ’80, afferma che le
donne di questa generazione sono quasi sempre le
prime, nelle proprie famiglie, che entrarano a far
parte di un mondo promiscuo, a stretto contatto
con gli uomini: nelle università, nell’ambiente
di lavoro, nella vita pubblica.
Per questo motivo le donne scelgono di adottare
l’abito islamico: per cercare di adattarsi a queste
nuove situazioni conflittuali riaffermando e ancorandosi,
al tempo stesso, ai valori tradizionali in cui sono
cresciute.
Secondo la Ahmed, l’abito islamico non
è necessariamente espressione di segregazione, ma,
al contrario, fa sì che la presenza delle donne
in uno spazio pubblico non costituisca in alcun
modo una sfida né una violazione dell’etica socio-culturale
islamica.
Chi lo indossa segnala la propria adesione ad un
codice morale e sessuale islamico, col risultato,
paradossale, di poter stringere amicizia con uomini
e di mostrarsi in loro compagnia senza timore di
essere tacciate di immoralità o di perdere la propria
reputazione. “Alcune donne confessano di aver
evitato di rivolgere pubblicamente la parola ad
un uomo prima di adottare l’abito islamico, ma ora
si sentono libere d frequentare classi miste o anche
di far due passi insieme ad uomini senza doversi
vergognare” .
Adottando l’abito islamico le
donne si ritagliano “uno spazio pubblico legittimo”.
Una scelta, dunque, che non vuole significare che
il posto delle donne è in casa, ma al contrario
ne legittima la presenza al di fuori di essa.
Per
questo motivo, l’ampia diffusione del velo islamico
in Egitto tra le donne negli anni ’70 e ’80, secondo
la Ahmed, non può essere interpretata come un arretramento
rispetto alle rivendicazioni di autonomia femminile
avanzate dalla generazione che le ha precedute.
Anche in assenza di una coscienza femminista, l’accesso
all’università, alle professioni e allo spazio pubblico
da parte di un numero sempre maggiore di donne,
provenienti da un settore assai ampio della popolazione,
non può essere considerato un fenomeno regressivo,
per quanto possa apparire conservatrice l’uniforme
che indossano per farsi largo in questi campi.
Mentre
il linguaggio del femminismo e della moda “occidentali”
è infatti tipico delle classi medie urbane, per
cui il “femminismo” come movimento politico può
essere descritto come un fenomeno “elitario e circoscritto”,
quello del “velo”, secondo la sociologa, sembra
essere espressione della ricerca di una distinta
identità culturale da parte delle donne delle popolazioni
rurali.
Pertanto l’abito islamico “non cristallizza chi
lo indossa nel mondo della tradizione, ma connota
la volontà di approdare alla modernità”. Debora
Avolio
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